PUBBLICAZIONI:
DUE DILIGENCE E PROFILI DI RESPONSABILITÀ PENALE DEL
PROFESSIONISTA
P. Pasquinuzzi e M. Urban, in Riv. Il Tributo
ilTributo.it - n.14
- 2015
DUE DILIGENCE E PROFILI DI RESPONSABILITA' PENALE DEL PROFESSIONISTA
di Paola Pasquinuzzi e Martina Urban
1. PROFILI GENERALI
L’imprenditore diligente è colui che riesce a pianificare in anticipo la propria strategia commerciale, ancorché le condizioni di mercato siano del tutto imprevedibili, per la combinazione di diverse variabili soggette a continuo cambiamento.
Nondimeno, l’operatore economico tenta di limitare l’inevitabile rischio d’impresa attraverso il reperimento di informazioni che gli consentano il maggior grado possibile di certezza “to make a good deal” .
Nel mondo contemporaneo, pervaso dallo scambio incessante di notizie, è indispensabile che l’imprenditore possa raccogliere dati veritieri ed attendibili sia riguardo alla propria realtà aziendale che relativamente agli altri operatori sul mercato (quali, ad esempio, concorrenti, fornitori o clienti), al fine di porre in essere una gestione cauta e ponderata, minimizzando i potenziali rischi derivanti dall’esercizio dell’impresa.
A tal fine, negli ultimi decenni la prassi commerciale italiana ha fatto proprio lo strumento di origine anglosassone definito “due diligence”, che consente di valutare, in modo rapido e trasparente, l’opportunità di porre in essere decisioni strategiche per l’impresa (quali cessioni di azienda o di quote societarie, operazioni straordinarie, quotazioni in borsa, etc.) mediante la raccolta di dati forniti direttamente dal soggetto a cui si riferiscono.
Innanzi tutto, la due diligence costituisce principalmente un mezzo per lo scambio di informazioni in modo veloce e trasparente direttamente con la controparte in relazione all’oggetto della transazione economica, la quale può consistere, ad esempio, in un immobile, nel complesso aziendale o un ramo di esso.
L'importanza di tale procedura deriva dal fatto che la comunicazione di tali dati consente sia di valutare l’interesse concreto della controparte a concludere l’affare, sia di rendere maggiormente veloci le stesse trattative, di cui la due diligence costituisce il punto di partenza .
Oltre a ciò, tale strumento può essere utilizzato dall'imprenditore per conoscere ed analizzare la propria consistenza aziendale, al fine di assumere le necessarie determinazioni circa l’efficienza e l’economicità di scelte gestionali cruciali (quali, ad esempio, l’aumento di capitale, le operazioni straordinarie di fusione o scissione, etc.).
Date queste brevi premesse, occorre valutare quali siano i rischi sotto il profilo della responsabilità penale per il soggetto che si occupi dell’attività del reperimento e analisi delle informazioni, nonché dell’elaborazione del report finale.
Quanto al professionista incaricato di effettuare la suddetta attività, nella grande maggioranza dei casi, si tratta di un consulente estraneo alla società committente, sia per garantire una certa imparzialità nelle valutazioni, sia in quanto il processo di “due diligence” di regola richiede un elevato grado di conoscenze tecniche in relazione a ciascun oggetto specifico dell’analisi .
Innanzi tutto il consulente, chiamato a esprimere la propria valutazione tecnica, dal punto di vista civilistico è responsabile nei confronti del proprio cliente nei limiti dell’incarico ricevuto e, in particolare, quale prestatore d’opera intellettuale, “se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà”, questi è responsabile dei danni “solo in caso di dolo o colpa grave”, ai sensi dell’art. 2236 cod. civ.
Oltre alla responsabilità civile ed eventualmente deontologica – che qui non interessano – occorre rilevare che l’attività di due diligence comporta dei potenziali rischi anche sotto il profilo penale, dato che ha principalmente ad oggetto l’analisi e la diffusione di informazioni suscettibili di alterare le transazioni commerciali o, addirittura, di manipolare un dato mercato di riferimento.
Tuttavia, è bene chiarire che l’errore o l’inadempimento contrattuale di per sé non determinano automaticamente una responsabilità penale, la quale deriva unicamente dalla commissione di un fatto tipico previsto dalla legge come reato.
Infatti, per la configurabilità di un comportamento umano come reato, è necessario che tale evento storico corrisponda agli elementi – oggettivo e soggettivo – della fattispecie tipica descritta da una data norma incriminatrice.
Con specifico riferimento all’attività di due diligence, non esiste una casistica giurisprudenziale significativa in ordine a reati commessi nell’ambito di tale procedura.
Tuttavia, dato che tale attività trova una sempre maggiore diffusione nell’ambito delle trattative d’affari, ci si domanda se la due diligence possa rappresentare l’occasione concreta per la realizzazione di alcuni reati, sia da parte del professionista in proprio che in concorso con il suo committente.
2. NATURA GIURIDICA DELLA DUE DILIGENCE E VERIDICITA’ DELLE INFORMAZIONI
Quanto alla natura giuridica della due diligence, questa non è specificatamente disciplinata a livello normativo, ma corrisponde ad una prassi commerciale adottata comunemente per la realizzazione di determinati affari, che richiedono una valutazione specifica in ordine all'oggetto concreto dell'affare (ad es. un complesso aziendale).
Nell’ipotesi tipica di due diligence effettuata in vista della realizzazione di una transazione commerciale tra due soggetti, tale procedura in generale si svolge attraverso la fase propedeutica di raccolta delle informazioni rilevanti, quella principale di analisi dei dati, nonché quella conclusiva di fornire un giudizio tecnico, una stima o una previsione, attraverso l’esposizione dei risultati dell’intera procedura nell’elaborato finale (c.d. report).
Per quanto qui interessa, assume particolare rilevanza la problematica relativa alla natura giuridica della due diligence, soprattutto al fine di valutare eventuali responsabilità per il professionista nel caso in cui venga rilevata la presenza di dati non veritieri.
Nel caso di una due diligence da predisporre nell’ambito delle trattative commerciali tra due soggetti, le informazioni vengono fornite direttamente da una delle parti che - di regola - si impegna a garantirne la conformità al vero .
Pertanto, l’attività del professionista è limitata all’analisi di quanto ricevuto e all’elaborazione delle proprie valutazioni, analogamente a quanto di regola fa un consulente tecnico.
Se l’analisi svolta nell'ambito di una due diligence si basa su alcune informazioni che non corrispondono alla realtà, nei confronti del consulente non potrà mai essere configurabile uno dei delitti che puniscono la “falsità ideologica” di cui agli artt. 479-484 e segg. cod. pen. , dato che la due diligence non ha natura giuridica di atto pubblico o certificazione .
Infatti, il professionista non ha un preciso obbligo di certificare la veridicità dei fatti rappresentati (come accade, per esempio, per il pubblico ufficiale che dà per vero quanto attesta erga omnes) in quanto, avendo ricevuto un incarico di natura privatistica, i destinatari dei risultati della attività sono esclusivamente i soggetti privati coinvolti nella operazione commerciale oggetto di analisi.
A maggior ragione, si può senz’altro ritenere che l’aspetto valutativo non possa essere considerato “falso” o “non veritiero”, trattandosi di un’opinione soggettiva – per quanto di carattere tecnico – che, come detto sopra, costituisce fonte di responsabilità per il consulente solo sul piano civile e, in ogni caso, limitatamente ai casi di dolo o colpa grave.
Oltre a ciò, il report della due diligence non ha natura di negozio giuridico, dato che non costituisce dichiarazione di scienza o di volontà suscettibile di determinare il sorgere, la modificazione o l’estinzione di un diritto soggettivo; pertanto, anche qualora contenga dati non veritieri, non costituisce atto penalmente rilevante neppure ai sensi dell’art. 485 cod. pen., che punisce la “falsità in scrittura privata” .
Esclusa in generale la configurabilità delle diverse fattispecie di falsità ideologica, occorre quindi valutare se nell’ambito della procedura in questione siano astrattamente ipotizzabili altre fattispecie di reato nei confronti del professionista, sia per fatto proprio che in concorso con il suo committente.
3. RESPONSABILITA’ PENALE DEL PROFESSIONISTA PER FATTO PROPRIO
Innanzi tutto, occorre prendere in esame le fattispecie di reato in cui il soggetto attivo del reato sia proprio il professionista che ha avuto il compito di porre in essere una due diligence.
A prescindere da casi limite in cui il consulente coltivi un proponimento personale di agire consapevolmente per danneggiare il proprio committente o la sua controparte, si può ipotizzare che il rischio maggiore per il professionista sotto un profilo penale sia rappresentato dalla violazione degli obblighi stabiliti a tutela della riservatezza dei soggetti fisici o giuridici coinvolti nell’operazione commerciale.
Ciò in quanto la due diligence viene realizzata solitamente nel corso delle trattative per la realizzazione di un affare o addirittura prima dell’inizio della negoziazione vera e propria.
Orbene, le informazioni riservate relative alla posizione patrimoniale, giuridica o fiscale, che sono state comunicate da una delle parti, per valutare l'affare restano a disposizione della controparte nonché del professionista, anche se l'affare non è stato concluso con il rischio, ovviamente, che tali dati vengano ulteriormente diffusi o, addirittura, utilizzati in modo pregiudizievole.
A tal fine, nelle lettere di incarico viene sempre prevista una o più clausole specifiche riguardanti il trattamento dei dati relativi all’operatore economico titolare delle informazioni oggetto di analisi, sia per impedire la diffusione a terzi che per evitare l’abuso di tali notizie per scopi estranei alla realizzazione dell’affare.
3.1. TUTELA DELLA RISERVATEZZA
Quanto al professionista, sono astrattamente ipotizzabili a suo carico taluni dei delitti previsti per condotte di illegittima utilizzazione di informazioni di cui è venuto a conoscenza nell’espletamento del proprio incarico.
In primo luogo, il segreto professionale impone il divieto di divulgare notizie e informazioni apprese durante lo svolgimento dell’incarico relativamente alla persona del cliente o alla sua attività.
Tale obbligo di segretezza comporta che, in caso di violazione, il professionista potrà essere ritenuto responsabile sia sul piano civile (nonché deontologico) che – entro determinati limiti – su quello penale.
A tale proposito, la prima fattispecie di reato che si pone in evidenza è senz’altro quella di “rivelazione di segreto professionale”, prevista dall’art. 622 cod. pen., il quale dispone, al primo comma, che “chiunque, avendo notizia, per ragione del proprio stato o ufficio, della propria professione o arte, di un segreto, lo rivela, senza giusta causa, ovvero lo impiega a proprio o altrui profitto, è punito, se dal fatto può derivare nocumento, con la reclusione fino ad un anno o con la multa da euro 30 a euro 516”.
In primo luogo, il delitto previsto dall’art. 622 cod. pen. è posto a tutela della libertà del singolo e, in particolare, del diritto di mantenere riservate determinate informazioni riguardanti la propria posizione soggettiva.
Si tratta inoltre di un reato proprio, in quanto può essere commesso unicamente da colui che riveste una particolare qualifica e, in particolare, da chi eserciti una determinata attività lavorativa e si perfeziona compiendo una delle condotte alternative previste dalla norma: o mediante rivelazione di un segreto senza giusta causa ovvero con l’utilizzazione della notizia confidenziale per un profitto proprio o altrui.
Quanto alla nozione di segreto, esso comprende tutte le informazioni riguardanti un soggetto di cui il professionista si è impegnato a mantenere la riservatezza.
Infine, si sottolinea che l’ipotesi di “rivelazione di segreto professionale” è reato di evento, dato che si realizza solo nel caso in cui dalla condotta derivi un danno ingiusto ed è procedibile a querela della persona offesa.
Oltre a tale ipotesi, nei confronti del professionista, qualora la due diligence abbia ad oggetto l’organizzazione e la valutazione di dati sensibili, personali o giudiziari si potrà astrattamente configurare il reato di “trattamento illecito di dati” previsto dall’art. 167 del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196 .
In generale, occorre premettere che, a norma dell’art. 4 del D.Lgs. n. 196/2003, per “trattamento” s’intende qualunque attività di raccolta, elaborazione, comunicazione e utilizzo avente ad oggetto dei dati personali, per una finalità specificatamente autorizzata dall’interessato.
Quanto alle sanzioni penali per l’illecito trattamento dei dati riservati, l’art. 167 del D.Lgs. n. 196/2003 prevede un diverso trattamento sanzionatorio, in base alla gravità della violazione perpetrata in ordine alle disposizioni relative alla tutela della privacy.
Tralasciando le ipotesi di cui al primo comma, applicabili unicamente a soggetti pubblici o incaricati di pubblici servizi, la fattispecie che qui interessa è quella prevista dal secondo comma dell’art. 167, del D.Lgs. n. 196/2003, che punisce la condotta di colui che procede al trattamento di dati personali in violazione alle regole stabilite a tutela dei dati sensibili, giudiziari o che comunque comportino rischi specifici per i diritti e le libertà fondamentali, nonché per la dignità dell’interessato, ovvero nel caso di comunicazione, diffusione o trasferimento all’estero fuori dai casi consentiti dalla legge.
Si tratta di un reato proprio, dato che il soggetto attivo può essere unicamente il “titolare del trattamento” dei dati in questione e, cioè, colui che risulta destinatario di un obbligo specifico di garantire la sicurezza in materia di protezione dei dati personali .
A differenza del delitto di “rivelazione di segreto professionale” di cui si è detto sopra, il delitto di “trattamento illecito di dati” può essere commesso da chiunque sia stato autorizzato a trattare dati riservati, anche se non riveste la qualifica di professionista.
Per quanto qui interessa, il delitto in esame assume particolare rilevanza per garantire la tutela della riservatezza avverso possibili abusi da parte del professionista o dei suoi incaricati, nonchè da parte del soggetto che ha commissionato la due diligence, al quale non sarebbe applicabile il delitto di cui all’art. 622 cod. pen., non essendo professionista, qualora, tuttavia, essi rivestano la qualifica di “titolari” del trattamento dei dati in questione.
Dal punto di vista oggettivo, è da sottolineare che la sola comunicazione a terzi soggetti (estranei quindi all’operazione economica per cui è stata commissionata la due diligence) di informazioni strettamente confidenziali o segrete non costituisce di per sé illecito penale.
Occorre infatti sottolineare che il Legislatore (mediante l’uso della locuzione “se dal fatto deriva nocumento”) ha espressamente previsto che la punibilità per il delitto di cui all’art. 167, comma 2, del D.Lgs. n. 196/2003, sia subordinata alla realizzazione dell’evento dannoso, con la conseguenza che l’illecita utilizzazione dei dati personali rileva unicamente nel caso in cui tale condotta sia idonea a produrre un pregiudizio economico o morale (cfr. Cass. pen., Sez. III, 24 maggio 2013, n. 23798) .
Dal punto di vista soggettivo, inoltre, la norma prevede espressamente che il delitto in questione si perfezioni unicamente qualora il soggetto attivo abbia agito con il dolo specifico di perseguire “il fine di trarne per sé o per altri profitto o di arrecare un danno” .
Ragion per cui, prima di effettuare una due diligence, nella lettera di incarico, vengono normalmente identificati i "titolari del trattamento" dei dati personali e, sovente, vengono inserite alcune apposite clausole per evitare il rischio di trattamento o diffusione illeciti di dati riservati .
3.2. UTILIZZO ILLECITO DELLE INFORMAZIONI ED EFFETTI DISTORSIVI SUL MERCATO
Oltre a tali ipotesi, talvolta l’utilizzazione o diffusione illecita di notizie riservate è addirittura capace di alterare gli scambi commerciali sui mercati delle merci, dei titoli quotati e non, delle monete o degli strumenti finanziari.
Astrattamente, quindi, il professionista che è entrato in possesso di informazioni riservate potrebbe addirittura essere ritenuto responsabile di taluno dei reati più gravi – anche se meno frequenti – di "aggiotaggio", "abuso di informazioni privilegiate" e "manipolazione del mercato", i quali presentano la caratteristica comune di punire condotte che, mediante manovre fraudolente, sono dirette a ostacolare il libero gioco delle leggi economiche, tanto da produrre nel mercato un oscillamento delle quotazioni del tutto fittizio e, quindi, determinando una frode collettiva, rivolta al pubblico degli investitori.
Per quanto qui interessa, tali condotte si collocano logicamente e temporalmente al di fuori del processo di due diligence e possono astrattamente configurarsi come un abuso fraudolento delle informazioni ottenute mediante la suddetta procedura.
Oltre al reato di aggiotaggio comune di cui all’art. 501 cod. pen., rubricato “rialzo e ribasso fraudolento di prezzi sul pubblico mercato o nelle borse di commercio”, che viene sempre più a trovarsi confinato in uno ambito del tutto marginale, dato che negli ultimi decenni, a seguito della globalizzazione, la contrattazione economica si è progressivamente spostata sui mercati finanziari, assumono particolare rilievo il delitto di "aggiotaggio" e di "insider trading".
In linea del tutto teorica, chiunque possieda informazioni riservate sulla situazione aziendale potrebbe essere soggetto attivo del delitto di “aggiotaggio”, di cui all’art. 2637 del Codice civile .
Inoltre, qualora la condotta abbia invece ad oggetto strumenti finanziari quotati o per i quali sia già stata richiesta la quotazione, l’agente sarà punibile per il delitto di “manipolazione del mercato”, ai sensi dell’art. 185 D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 .
Entrambe le suddette fattispecie di reato, a parte il differente oggetto materiale (strumenti quotati o non), tutelano il regolare svolgimento delle contrattazioni e puniscono condotte del tutto simili di manipolazione del mercato di riferimento, attraverso operazioni simulate o fraudolente o, in special modo, mediante la diffusione di notizie false.
E’ proprio tale ultimo aspetto che assume rilevanza nel caso di una due diligence, dato che tale procedura può costituire l’occasione concreta per entrare in possesso di alcune notizie riservate circa le scelte gestionali di un dato operatore economico (quali, ad esempio, la quotazione in borsa, l’acquisizione di rami d’azienda, l’allargamento della compagine sociale) e, di conseguenza, consentire ad un possibile concorrente trarne profitto, mediante la diffusione al momento opportuno di dati non veritieri sul mercato di riferimento.
Quanto alla natura giuridica dei delitti in parola, tali fattispecie sono reati di pericolo concreto, dato che non è necessaria la effettiva sensibile alterazione del prezzo degli strumenti finanziari, ma esclusivamente la idoneità della condotta a produrre tale effetto .
L’ultima fattispecie da prendere in esame in materia di illecito uso di notizie apprese nell'espletamento della due diligence è quella di “abuso di informazioni privilegiate”, ai sensi dell’art. 184 del citato D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58.
Tale ipotesi, definita anche “insider trading”, punisce la condotta di colui che, in possesso di informazioni privilegiate, compia operazioni su strumenti finanziari, comunichi tali informazioni ad altri ovvero raccomandi terzi soggetti di fare determinate operazioni aventi ad oggetto strumenti finanziari.
Si tratta di un reato proprio, in quanto il soggetto attivo è unicamente colui che è in possesso di informazioni privilegiate in ragione del suo ruolo all’interno di organi di amministrazione, direzione o controllo di una Società quotata, della sua partecipazione quale socio, ovvero per l’esercizio di un’attività lavorativa, di una professione, di una funzione o di un dato ufficio.
Quanto alla nozione di “informazione privilegiata”, si tratta di una notizia di carattere preciso, che non è stata resa pubblica, che riguarda, direttamente o indirettamente, sia uno o più strumenti finanziari, che gli enti che li hanno emessi e, soprattutto, tale notizia deve essere idonea a influire in modo sensibile sui prezzi dei suddetti strumenti finanziari.
Dal punto di vista oggettivo il delitto in questione è configurato dal legislatore come reato di pura condotta e di pericolo concreto: non è infatti richiesto che si verifichi effettivamente l’alterazione significativa dei prezzi degli strumenti finanziari e neppure che sussista un vantaggio o un danno per gli emittenti, essendo sufficiente che l’informazione privilegiata possa ritenersi utilmente sfruttabile da un investitore ragionevole.
Per quanto riguarda il professionista incaricato di svolgere una due diligence, assume una particolare importanza soprattutto l’ipotesi di cui all’art. 184, comma 1, lett. b), che configura il delitto di abuso di informazioni privilegiate a carico di chi “comunica tali informazioni ad altri, al di fuori del normale esercizio del lavoro, della professione della funzione o dell’ufficio”.
Ciò in quanto la divulgazione di notizie che mostrano una realtà economica in modo solo parziale o allusivo da parte di un operatore "qualificato" si può rivelare estremamente pericolosa, tanto da indurre taluni operatori economici a compiere determinate scelte che, altrimenti, non avrebbero effettuato.
4. RESPONSABILITA’ PENALE DEL PROFESSIONISTA IN CONCORSO CON L’IMPRENDITORE
Ancorché il professionista che esegue una due diligence possa essere in prima persona soggetto attivo di reato – come detto sopra – la situazione più frequente nella quale sia astrattamente configurabile la sua responsabilità penale è quella del concorso in reati commessi dal suo committente.
In tal caso, trovano applicazione i principi generali in materia di concorso di persone nel reato, disciplinato dall’att. 110 cod. pen., il quale prevede che “quando più persone concorrono nel medesimo reato, ciascuna di esse soggiace alla pena per questo stabilita”.
In particolare, tale istituto si applica quando il reato è realizzato mediante la partecipazione di più soggetti, ciascuno dei quali fornisce un contributo causale consapevole alla verificazione dell’evento dannoso o pericoloso.
L’apporto causale dei singoli concorrenti può essere di carattere materiale o morale, a seconda che si tratti del compimento di una parte della condotta tipica o che si manifesti in un’azione di determinazione, istigazione o rafforzamento del proposito criminoso altrui.
Sotto il profilo psicologico, inoltre, l’elemento soggettivo del concorso richiede che ciascun partecipe abbia la coscienza e la volontà sia di realizzare uno specifico reato, che di concorrere con altri nella sua causazione.
Quanto alla responsabilità del professionista a titolo di concorso con l’imprenditore nel caso di due diligence e, più in generale, in riferimento all’attività di consulenza, è bene chiarire innanzi tutto che l’errore, anche se determinato da colpa grave, non comporta responsabilità penale.
Nell’ambito dell’impresa infatti (a parte i reati colposi in materia di sicurezza e taluni di tipo ambientale), le figure criminose più frequenti sono costituite da delitti puniti esclusivamente a titolo di dolo, in relazione ai quali non è quindi ipotizzabile il concorso “colposo”, in caso di negligenza o imperizia del consulente.
Infatti, per i delitti non colposi, il professionista potrà essere chiamato a rispondere solamente quando abbia dato intenzionalmente un contributo causale materiale o morale alla realizzazione del fatto delittuoso del cliente, agevolandone o rafforzandone la condotta con un proprio comportamento cosciente e volontario.
4.1. TRUFFA
Nell’ambito di una procedura di due diligence, un’ipotesi particolarmente interessante si ha nel caso in cui professionista e committente si accordino per inserire determinati contenuti ovvero per ometterne altri, al fine di perseguire un interesse in conflitto con la controparte.
Quanto alle possibili ipotesi di frode perpetrata mediante l’utilizzazione di una due diligence, la prima fattispecie di reato da prendere in considerazione è quella di “truffa” prevista dall’art. 640 cod. pen.
Tale delitto punisce la condotta di chiunque “con artifizi e raggiri, inducendo taluno in errore, procura a sé o ad latri un ingiusto profitto con altrui danno”.
Gli elementi oggettivi della fattispecie in esame sono costituiti dal porre in essere un inganno (mediante falsificazione dello stato di fatto ovvero simulando un’apparenza che in realtà non esiste), tale da indurre la persona offesa a compiere un atto di disposizione patrimoniale pregiudizievole per i propri interessi.
Conseguenze dirette dell’azione criminosa sono quindi il conseguimento di un profitto ingiusto e di un correlativo danno a contenuto patrimoniale od economico per il soggetto passivo.
Dal punto di vista soggettivo, inoltre, il delitto in questione è punibile a titolo di dolo generico, essendo sufficiente la coscienza e volontà di indurre in errore la vittima con inganno.
Particolare interesse riveste la c.d. “truffa contrattuale”, elaborata dalla giurisprudenza nel caso in cui l’agente ponga in essere gli artifizi e i raggiri nel corso delle trattative per la conclusione di un negozio giuridico, traendo in errore la propria controparte e inducendo quest’ultima a prestare un consenso che, altrimenti, non avrebbe dato.
Secondo il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, “integra gli estremi della truffa contrattuale la condotta di chi ponga in essere artifizi o raggiri consistenti nel tacere o dissimulare fatti o circostanze tali che, ove conosciuti, avrebbero indotto l’altro contraente ad astenersi dal concludere il contratto” (cfr., ex multis, Cass. pen., Sez. II, 19 marzo 2013, n. 28703).
Si rileva inoltre che sussiste l’inganno tipico del delitto di truffa non solo qualora vengano comunicati dati falsi, ma anche in relazione al silenzio maliziosamente serbato da una delle parti circa un aspetto essenziale ai fini della conclusione del contratto.
A titolo esemplificativo, “costituisce raggiro il comportamento del soggetto, che, nella qualità di amministratore di una società, ne venda alcune quote omettendo di riferire all'acquirente, determinatosi all'affare per le prospettive di guadagno derivanti dall'essere quella società controllante di altra a rilevante capitale pubblico e con florida situazione economico-patrimoniale, i rischi di un'eventuale e futura revocatoria fallimentare avente ad oggetto le quote di partecipazione della società ceduta nella controllata, perché la revocatoria fallimentare colpisce un negozio fraudolento, che presuppone il consilium fraudis in capo al soggetto agente” (cfr. Cass. pen., Sez. II, 22 gennaio 2006, n. 40238).
Quanto alla due diligence, il contesto in cui questa si colloca è proprio quello delle negoziazioni precontrattuali, dato che costituisce momento di scambio di informazioni tra i due contraenti in vista della realizzazione dell’affare.
Basti pensare alla compravendita di immobili o alla cessione di azienda, laddove la suddetta procedura ha l’obiettivo principale di definire le condizioni dell’operazione commerciale (soprattutto il prezzo o il valore), consentendo una valutazione ponderata circa l’opportunità o meno di porre in essere la transazione commerciali che l’operatore si propone di perseguire.
Orbene, nel caso in cui l’imprenditore, magari in concorso con il professionista, nel corso della due diligence faccia apparire l'oggetto della trattativa diverso da come è in realtà, tanto da indurre la controparte a compiere una valutazione erronea circa uno o più aspetti fondamentali dell’oggetto dell’affare, sarà configurabile il delitto di truffa, purché i dati “ingannevoli” abbiano ad oggetto circostanze rilevanti sotto il profilo sinallagmatico .
In questo caso, l’evento di danno è costituito proprio dalla stipulazione del contratto che, in assenza di artifizi o raggiri, non sarebbe stato concluso oppure sarebbe sottoscritto a condizioni diverse (come, ad esempio, ad un prezzo inferiore o con il rilascio di opportune garanzie) .
4.2. MENDACIO E FALSO INTERNO
Oltre a tali ipotesi, accade sovente nella pratica che l’imprenditore commissioni l’esecuzione di una due diligence ad uso “interno”, da rendere nota ad un istituto bancario, per ottenere un finanziamento o un affidamento.
Infatti, a garanzia del credito, usualmente la Banca chiede specifiche informazioni circa la solvibilità dell’operatore economico e, in particolare, circa la consistenza patrimoniale dell’azienda e l’assenza di passività consistenti, soprattutto nei confronti dell’Erario.
In tal caso è bene sottolineare che il solo fatto di fornire “dolosamente ad una banca notizie o dati falsi sulla costituzione o sulla situazione economica patrimoniale o finanziaria” dell’azienda interessata alla concessione del credito configura il delitto di “mendacio e falso interno”, previsto dall’art. 137, comma primo bis, del D.Lgs. 1 settembre 1993, n. 385 .
Tale fattispecie tutela la correttezza e la lealtà nei rapporti tra agente e istituto bancario, anche a prescindere da ogni eventuale pregiudizio che possa derivare dalla condotta tipica.
Si tratta infatti di reato di pericolo, dato che “l’art. 137, comma primo bis, del D.Lgs. n. 385/1993, sanzionando la violazione dell’obbligo giuridico di fornire informazioni veritiere sulla situazione economica di colui che intende ottenere concessioni di credito per sé o per le azienda che amministra, configura un reato di pericolo che intende assicurare, indipendentemente dalla effettiva concessione del credito o dal concreto pregiudizio per la banca, una tutela anticipata della correttezza e della lealtà nei rapporti tra agente ed istituto bancario” (cfr. Cass. pen., Sez. III, 8 gennaio 2014, n. 3640).
Il fatto che la norma in esame non richieda necessariamente la causazione di un danno, costituisce elemento distintivo tra il delitto di mendacio (a carattere residuale) e quello di truffa.
Quest’ultimo, infatti, essendo reato di danno, si realizza solo allorquando la condotta dell’agente abbia prodotto il duplice evento dell’induzione in errore e del corrispondente depauperamento patrimoniale.
Al contrario, il delitto di “mendacio e falso interno” sarà applicabile non solo in mancanza di danno per l’Istituto di credito, ma addirittura qualora il credito non sia stato neppure concesso.
5. FACOLTA’ DI DENUNCIA E OBBLIGHI ANTIRICICLAGGIO
Dopo aver preso in esame talune fattispecie astrattamente configurabili nei confronti del consulente incaricato della redazione di una due diligence, occorrerà prendere in considerazione le norme di comportamento del professionista “diligente” nel caso in cui questo, durante l’espletamento del suo compito, venga a conoscenza della realizzazione di un fatto previsto dalla legge come reato.
Ciò potrebbe verificarsi nel caso in cui il professionista – ovviamente fuori dall’ipotesi di concorso – venga a conoscenza di elementi concreti da cui sia possibile desumere la commissione di un reato da parte di uno dei soggetti dell’impresa.
Occorre precisare che il consulente esterno non è destinatario di alcun obbligo di impedire la realizzazione di un fatto illecito (al contrario di quanto è previsto, in generale, per esempio, per i sindaci di Società).
Di conseguenza, non potrà mai essere configurabile nei suoi confronti una responsabilità penale per comportamento omissivo consistente nel mancato impedimento di un evento criminoso.
Infatti, il professionista, non essendo destinatario di obblighi giuridici di controllo e vigilanza, non riveste alcuna peculiare posizione di garanzia che lo obblighi a impedire uno specifico evento e, in particolare, l’azione criminosa dell’imprenditore.
Ciò nondimeno, occorre prendere in esame quale sia la condotta che dovrebbe assumere il professionista qualora, nel corso del processo di due diligence, venga a conoscenza che nell’ambito dell’impresa è stato commesso un reato, magari proprio da parte del suo committente.
In tal caso, il professionista – essendo un soggetto privato – non ha l’obbligo di denuncia, previsto dall’art. 331 cod. proc. pen. unicamente per i pubblici ufficiali.
Ciò comporta che, ai sensi dell’art. 333 cod. proc. pen., il consulente – come qualunque altro soggetto privato – ha la facoltà di decidere liberamente o meno se proporre denuncia all’autorità giudiziaria, limitatamente ai reati procedibili d’ufficio.
Pertanto, la semplice condotta di omessa denuncia da parte del consulente non sarà sufficiente a fondare la responsabilità penale a titolo di concorso nel reato, in assenza di un contributo materiale o morale che abbia determinato il rafforzamento del proposito criminoso altrui.
Infatti, il mero “connivente” non è punibile, dato che questi, nonostante sia a conoscenza del fatto criminoso, resta comunque estraneo rispetto alla realizzazione della condotta tipica posta in essere dal soggetto agente .
Ciononostante il professionista, pur non essendo destinatario di alcun obbligo di denuncia all’Autorità Giudiziaria, è in ogni caso tenuto ad effettuare le eventuali segnalazioni previste dalla normativa antiriciclaggio.
Il D.L.vo 21 novembre 2007, n. 231, recependo ed attuando la Direttiva Comunitaria n. 2005/60/CE, ha introdotto un insieme di regole a tutela del sistema economico, al fine di prevenire il rischio di immissione di beni di provenienza illecita nel circuito finanziario legale, oltre all’impiego di capitali per il finanziamento di attività terroristiche.
In generale, a norma dell’art. 1, comma 5, del D.Lgs. n. 231/2007, la finalità principale della normativa anti-riciclaggio è quella di dettare specifiche misure volte a tutelare l’integrità dei sistemi finanziario ed economico.
Tra le suddette misure, il Decreto Legislativo 21 novembre 2007, n. 231 prevede l'obbligo per i professionisti di porre in essere un’attività di monitoraggio della clientela al fine di individuare le operazioni sospette di riciclaggio, nonché l’obbligo di segnalazione delle suddette operazioni sospette.
In particolare, l’art. 41 del citato testo normativo dispone che determinati soggetti (tra i quali anche i professionisti) debbano inviare all’Unità di Informazione Finanziaria “una segnalazione di operazione sospetta quando sanno, sospettano o hanno motivi ragionevoli per sospettare che siano in corso o che siano state compiute o tentate operazioni di riciclaggio o finanziamento del terrorismo”.
In conclusione, il professionista sarà sempre tenuto a rispettare gli obblighi in materia di anti-riciclaggio di cui sopra, nella sua attività di consulenza e, a maggior ragione, nell’ambito di una due diligence, dato che tale procedura viene utilizzata nella maggior parte dei casi in vista della realizzazione di un’operazione commerciale che implica la movimentazione di flussi monetari e che, quindi, rientra nel novero delle potenziali “operazioni sospette”.
Qualora, per la natura dell’affare da concludere, vi siano ragioni di opportunità per non rivelare tutte le informazioni relative all’oggetto dell’operazione (come, ad esempio, nel caso di cessione di azienda), le trattative si possono svolgere in due momenti distinti: in una prima fase, il cedente rende note solo talune informazioni generali, al fine di comprendere se la sua controparte è interessata a sedersi al tavolo delle trattative. Successivamente, qualora il potenziale acquirente abbia manifestato concretamente il proprio interesse (magari versando anche una caparra), cominceranno le trattative vere e proprie, nel corso delle quali il dante causa metterà a disposizione il set completo di informazioni rilevanti in merito all’affare da concludere. Tale prassi evidenzia più chiaramente che la funzione della due diligence è anche quella di consentire un notevole risparmio di tempo, sia nella valutazione delle possibili controparti interessate, sia nel corso delle negoziazioni, che partono da una serie di elementi di riferimento noti ad entrambi i contraenti.
Sovente, infatti, nella pratica il processo di due diligence viene affidato ad un “pool” o “comitato”, ovvero ad un gruppo di professionisti specializzati nelle varie discipline (contabile, legale, tributaria, finanziaria, immobiliare, ambientale, etc.).
Nel caso in cui questi dati siano falsi o maliziosamente incompleti, il soggetto potrà essere ritenuto responsabile sia sotto il profilo civilistico che, addirittura, dal punto di vista penale, qualora – come si vedrà più avanti – il suo comportamento abbia assunto un carattere fraudolento.
Si tratta, in generale, di delitti che tutelano la “fede pubblica” e, cioè, la fiducia che la generalità dei consociati ripone in atti pubblici, certificazioni, autorizzazioni della Pubblica Amministrazione, registri e notificazioni.
Spesso nella lettera di incarico o nel testo del report finale il professionista adotta apposite cautele, dichiarando che la propria valutazione o previsione sono basate sul presupposto che i dati forniti corrispondano alla realtà, che rappresentino in modo completo una data situazione e che non vi siano state modificazioni dello status quo nel frattempo.
Art. 485 cod. pen. (Falsità in scrittura privata): “Chiunque, al fine di procurare a sé o ad altri un vantaggio o di recare ad altri un danno, forma, in tutto o in parte, una scrittura privata falsa, o altera una scrittura privata vera, è punito, qualora ne faccia uso o lasci che altri ne faccia uso, con la reclusione da sei mesi a tre anni. [II]. Si considerano alterazioni anche le aggiunte falsamente apposte a una scrittura vera, dopo che questa fu definitivamente formata”.
Art. 167 (Trattamento illecito di dati): “1. Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, al fine di trarne per sé o per altri profitto o di recare ad altri un danno, procede al trattamento di dati personali in violazione di quanto disposto dagli articoli 18, 19, 23, 123, 126 e 130, ovvero in applicazione dell'articolo 129, è punito, se dal fatto deriva nocumento, con la reclusione da sei a diciotto mesi o, se il fatto consiste nella comunicazione o diffusione, con la reclusione da sei a ventiquattro mesi. 2. Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, al fine di trarne per sé o per altri profitto o di recare ad altri un danno, procede al trattamento di dati personali in violazione di quanto disposto dagli articoli 17, 20, 21, 22, commi 8 e 11, 25, 26, 27 e 45, è punito, se dal fatto deriva nocumento, con la reclusione da uno a tre anni”.
Cfr. Cass. pen., Sez. III, 17 dicembre 2013, n. 5107, per cui “i reati di cui all'art. 167 cod. privacy devono essere intesi come reati propri, trattandosi di condotte che si concretizzano in violazioni di obblighi dei quali è destinatario in modo specifico solo il titolare del trattamento e non ogni altro soggetto che si trovi ad avere a che fare con i dati oggetto di trattamento, senza essere dotato dei relativi poteri decisionali”.
Peraltro, il “nocumento”, previsto dalla norma quale condizione obiettiva di punibilità, non è soltanto il danno derivante al soggetti a cui si riferiscono i dati oggetto di abuso, ma anche quello prodotto nei confronti di terzi (cfr. Cass. pen., Sez. III, 16 luglio 2013, n. 7504).
Cfr. Cass. pen., Sez. V, 7 marzo 2013, n. 28280, secondo cui “[…], ai fini del delitto di trattamento illecito di dati personali, di cui all'art. 167 comma 2 D.Lgs. n. 196 del 2003: a) il nocumento può sussistere anche quando dal trattamento di dati sensibili derivino, per la persona offesa, effetti pregiudizievoli sotto il profilo morale; b) il profitto, quale oggetto del dolo specifico richiesto dalla norma incriminatrice, può concretarsi in qualsiasi soddisfazione o godimento che l'agente sì ripromette di ritrarre, anche non immediatamente dalla propria azione […]”.
In particolare, nel contratto, usualmente il professionista identifica le informazioni da ritenersi riservate, dichiara di non utilizzare le notizie apprese nell’espletamento del proprio incarico per finalità diverse da quelle pattuite e di non diffonderle a terzi. Inoltre, nella lettera di incarico il professionista prevede di solito che il committente assuma i medesimi obblighi quanto al trattamento, all’utilizzo ed alla diffusione delle notizie in questione, che devono restare riservate, anche all’interno della propria compagine societaria.
Art. 2637. “Chiunque diffonde notizie false, ovvero pone in essere operazioni simulate o altri artifici concretamente idonei a provocare una sensibile alterazione del prezzo di strumenti finanziari non quotati o per i quali non è stata presentata una richiesta di ammissione alle negoziazioni in un mercato regolamentato, ovvero ad incidere in modo significativo sull'affidamento che il pubblico ripone nella stabilità patrimoniale di banche o di gruppi bancari, è punito con la pena della reclusione da uno a cinque anni”.
Art. 185 (Manipolazione del mercato): “1. Chiunque diffonde notizie false o pone in essere operazioni simulate o altri artifizi concretamente idonei a provocare una sensibile alterazione del prezzo di strumenti finanziari, è punito con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da euro ventimila a euro cinque milioni. 2. Il giudice può aumentare la multa fino al triplo o fino al maggiore importo di dieci volte il prodotto o il profitto conseguito dal reato quando, per la rilevante offensività del fatto, per le qualità personali del colpevole o per l'entità del prodotto o del profitto conseguito dal reato, essa appare inadeguata anche se applicata nel massimo. 2-bis. Nel caso di operazioni relative agli strumenti finanziari di cui all'articolo 180, comma 1, lettera a), numero 2), la sanzione penale e' quella dell'ammenda fino a euro centotremila e duecentonovantuno e dell'arresto fino a tre anni”.
Tuttavia, tale idoneità a manipolare il mercato “costituisce un concetto elastico, commisurabile alla particolare condizione del caso ed alla natura dello strumento su cui l’operatore va ad incidere con la sua condotta” (cfr. Cass. pen., Sez. V, 27 settembre 2013, n. 4619).
“In materia di truffa contrattuale, anche il silenzio, maliziosamente serbato su alcune circostanze rilevanti sotto il profilo sinallagmatico da parte di colui che abbia il dovere di farle conoscere, integra l'elemento oggettivo del raggiro, idoneo a determinare il soggetto passivo a prestare un consenso che altrimenti non avrebbe dato”. (Nella specie, il promissario acquirente non era stato reso edotto dal promissario venditore della pendenza di un processo esecutivo sull’immobile per un ammontare molto ingente, superiore allo stesso prezzo pattuito, destinato a sfociare nella vendita all’asta). (Cfr. Cass. pen., Sez. II, 11 ottobre 2005, n. 39905).
A titolo esemplificativo, “il prospettare, in sede di vendita di un esercizio commerciale, la ritraibilità di utili maggiori di quelli risultanti dalle scritture contabili, per non essere stati (i maggiori utili) volontariamente contabilizzati, né altrimenti provati, integra gli artifici e i raggiri propri del delitto di truffa. Tale condotta è da ritenersi penalmente rilevante, perché idonea ad indurre il contraente ad acquistare l'esercizio commerciale, in condizione di errore su uno degli elementi essenziali del negozi o giuridico” (Cass. pen., Sez. II, 3 luglio 2013, n. 43422).